Un grande film sull’emersione del sommerso

by Mariangela

“Chiamami col tuo nome”… il tuo nome è capolavoro… semplice, piccolo ma incontenibile come tutto ci tocca nel profondo, nella parte molle che è in noi, magari sommersa, sopita, sepolta… ciò che tocca quello che è perso, vissuto nella meraviglia dell’inconsapevolezza dei passaggi…

Un film che è diventato un moto del mio animo… un’atmosfera, un umore trasformato in una forma di amore… un brivido lungo la schiena…

Una semplice chiacchierata con la mia amica Assia per sapere se il film l’ha toccata… Chiudo gli occhi… sento… e scrivo.

“Come singoli siamo tutti un po’ perdenti perché abbiamo perso l’unicità verso noi stessi… Il nostro io e’ alla ricerca della felicità che significa integrità… unione di se’…ma…siamo quello che non saremo, che non sappiamo di noi, quello che sappiamo voler essere ma non potremo mai, quello che non crediamo di essere, quello che abbiamo perso e mai avuto, mai sperato o meritato. Siamo già frantumati da noi stessi prima che ci frantumi la vita… siamo ossa rotte… siamo pezzi che si sentono a pezzi… e che sono alla ricerca di recuperare brandelli di felicità… di unità… ma proprio per questo.. siamo potenzialmente protesi a non fermarci… siamo un dardo lanciato verso il nostro voler poter diventare…

Vivere qualcosa nella pienezza delle proprie incertezze è sempre meglio di non vivere per l’inconsistenza delle proprie certezze, che sono un modo rassicurante di chiamare le nostre paure…

Le mie riflessioni stanno venendo su… emersione… come la statua… come il padre che diventa figlio parlando con il figlio che non e’ stato, il figlio che non ha avuto il coraggio di essere.

Le parole del padre. Le parole che come genitore vorrei poter dire… parole di un sentire che deve aver la forza di diventare Amore, Guida, Carezza…. Quella stessa carezza che “le mani della madre” sanno dare e da cui non si sottraggono. Così le lacrime silenziose, nello spazio stretto di una macchina, trovano se non una soluzione, una quiete dagli occhi della madre, in quel suo non dire nulla ed esserci, in quello sguardo che restituisce la consolazione di un tormento che non ha bisogno di essere detto o spiegato, perché è visto, riconosciuto, accolto. L’amore pieno che, questa volta, si esprime con un vuoto di parole… un vuoto di parole che non è assenza assordante, ma è presenza affettuosa.

E ancora mi riecheggiano taglienti come lame ricoperte di miele le parole del padre. Le sue parole…

Rinunciamo a tanto di noi per guarire più in fretta del dovuto, che finiamo in bancarotta a trent’anni, e ogni volta che ricominciamo con una persona nuova abbiamo meno da offrire. Ma non provare niente per non rischiare di provare qualcosa… che spreco!“. “Adesso soffri. Non invidio il dolore in sé. Ma te lo invidio, questo dolore“.

In quello sguardo fisso per lunghi interminabili minuti di fronte al quel fuoco che arde, con le lacrime che rigano il volto, con gli occhi persi e brillanti per il danzare della fiamma, in quel lieve sorriso che dolcemente sorge e fa risorgere… sulle note di una struggente e nostalgica canzone… la vita incontaminata, sfuggente nel suo essere palpabile, vitale vita… eccola lì… che c’è. La vita.

Le mie lacrime sui titoli di coda… le mie lacrime insieme a queste parole.

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