Tra speranze e concrete paure. La resilienza dei lavoratori ai tempi del Coronavirus

by Mariangela

Mariangela Bruno

Le bare sui camion nelle strade di Bergamo sono state uno spettacolo straziante che difficilmente potrà essere dimenticato. Tante, troppe le morti che il Coronavirus sta mietendo.

E poi ci sono quelle morti sociali, al momento forse meno evidenti, perché il loro urlo non è ancora così forte e devastante come quello inchiodante della lista nera dei decessi.

Ma sono tante le voci di chi non sa cosa sarà il futuro, se avranno un futuro, se le loro attività piccole o grandi potranno sopravvivere, se avranno ancora uno stipendio, se loro, le famiglie i dipendenti che lavorano con loro avranno ancora una possibilità di vita. Perché è questo il dramma del coronavirus: non solo morte concreta, ma timore di una non vita. E quindi paura, panico, disperazione, che l’incertezza concreta porta con sé.

Sono questi i pensieri che tormentano la notte senza farlo dormire di Paolo, che guida l’azienda di lavorazioni galvaniche nel varesotto. La sua azienda fondata dal padre nel 1954 è l’azienda di famiglia, con lui alla guida c’è il figlio. Ma è una azienda di famiglia allargata: 12 collaboratori con famiglie, di cui si sente il peso e la responsabilità di non poter garantire una possibilità di futuro certo. “Siamo leoni in gabbia. Io sono un ottimista ma la risposta che non riesco a dare a mio figlio è soltanto una: ripartiamo si ma per fare cosa?” Resistenza e resilienza sono atteggiamenti che non bastano a dare risposte a dubbi ed ansie che accomunano tanti imprenditori di piccole e medie imprese come la sua. Il timore concreto è che se non si potrà riaprire in fretta, saltino fornitori e subfornitori, mettendo in seria difficoltà chiunque sia nella catena del valore. Paolo combatte barcamenandosi sui codici Ateco, che ritengono con una logica forse vetusta quali aziende producono beni essenziali o meno e quindi restare aperte. Con un numero che è una certezza: -30% il crollo dei ricavi.

In una centralissima via di Milano Maurizio aveva un negozio di valigie dal 1945. Un bene che è diventato ormai un miraggio: per lungo tempo chi viaggerà ancora. Travolto dall’impietosa falce del coronavirus , il suo negozio ha chiuso molto prima delle fabbriche. Ma il suo futuro lo vede dipinto di un nero realismo: nessuna ripresa di una fase 2 potrà probabilmente garantire la sopravvivenza del suo negozio che per non soccombere ai costi di gestione e dei cari affitti del centro di Milano deve giornalmente atterrare su fatturati impensabili in un momento dove le valigie e gli accessori da viaggio non serviranno: questi come altri, fanno parte di quei prodotti che davano corpo al piacere dello shopping, di cui era no piene le nostre vite. Un piacere scontato…. E che ora vorremmo comprare anche a caro prezzo!. “Io ho 64 anni e posso anche ritirarmi, ma conosco tanti colleghi di 40-50 anni con una famiglia sule spalle. Non vorrei essere al posto loro. L’unica cosa che mi consola è che nessuno dei miei figli fa il mio mestiere. Ora rischierebbero il lavoro”.

Sono le parole di un padre, di un lavoratore che vorrebbe avere un futuro e che sa che solo un vaccino potrà dare speranza. Unico antidoto alla disperazione.

Fonte: “Corriere della sera, 8 aprile”

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